Passeggiata nel Ghetto di Roma

Sinagoga
Diario di: Redazione GoTellGo
Autore: GoTellGo
Goteller: Redazione GoTellGo
Categoria:
Creato il: 22/05/2010
Data Da: 30/01/2009
Data A: 30/01/2009
Licenza: Creative Commons License
Nazioni: Italy
: roma
Parole chiave: Taddeo Landini, Sisto V, Quinto Cecilio Metello il Macedonico, Pietas, Pescheria, Paolo V, Paolo IV Carafa, Ottavia, Orsini, orsi, mercato del pesce, Leone XII, Giunone Regina, Giove Statore, Giacomo della Porta, ghetto, elemosine, Ebrei, Diana, cottìo, Costa, Congregazione degli Operai della divina Pietà, Cola di Rienzo, Ciceruacchio, Bernini, Benedetto XIII, Augusto, Armanni

Due ore nel Rione Sant'Angelo, tra antichità romane e vestigia dell'antico ghetto ebraico.

Decido di dedicare mezza giornata alla visita del Rione Sant'Angelo.

Inizio il percorso dal Lungotevere Cenci, di fronte alla Sinagoga.

In ogni grande città, ci sono quasi sempre dei quartieri in cui si raccolgono le minoranze etniche, i cosiddetti ghetti. E, infatti, anche a Roma, il ghetto non è mancato. In questa zona, insalubre e soggetta alle piene del Tevere prima che venissero costruiti i grandi muraglioni protettivi, ci vivevano fin dal XII secolo gli ebrei, più o meno tollerati nel corso dei secoli, a seconda dell'atteggiamento dei papi che si alternavano sul seggio di S. Pietro.

Nel 1555, in clima di Controriforma, papa Paolo IV Carafa, stimolato dalla politica corrente e seguendo l'esempio di Venezia, decise di relegarli in un quadrilatero recintato con un muro in cui si aprivano tre porte, che venivano chiuse ogni giorno al calar del sole. Fu addirittura vietato loro ogni genere di commercio che non fosse quello di abiti usati e roba vecchia. Quelli che avevano la licenza per un banco di prestito, non potevano percepire interessi superiori al 12%, la metà di ciò che all'epoca veniva giudicato lecito.

Fu Ciceruacchio, nel 1848, alla testa di altri compagni liberali, ad abbattere il ghetto pontificio. Ancor oggi, comunque, il quartiere è abitato dalla comunità ebraica che continua ad esercitarvi i suoi commerci.

Il muro del Ghetto aveva inizio dal Ponte Fabricio (o Ponte dei Quattro Capi per la presenza di un'erma quadrifronte), - quello che unisce l'Isola Tiberina al Rione Sant'Angelo - si dirigeva quindi verso il Portico d'Ottavia, lasciando fuori la Pescheria e raggiungeva Piazza Giudea; piegava quindi seguendo via del Progresso; l'altro lato lungo era costituito dalle sponde del Tevere. All'interno il quartiere era percorso da tre strade più o meno parallele al corso del Tevere.

Inizialmente gli Ebrei attingevano dal fiume l'acqua da bere; fu Paolo V che fece sistemare in Piazza delle Cinque Scole una fontana adorna di draghi araldici e dell'emblema con il candelabro a sette bracci.

Successivamente il Ghetto venne ampliato sotto i papati di Sisto V e di Leone XII. Sembra che in questo quartiere sovraffollato vivessero non meno di 4000 persone, in condizioni di vita indescrivibili.

Le mura del Ghetto vennero comunque abbattute nel 1848 e circa quarant'anni dopo, nel 1885, si decise la demolizione del quartiere eseguita nel 1888. Esso venne riedificato in quattro blocchi di abitazioni e al centro venne eretta la Sinagoga.

Durante la distruzione del quartiere vennero demolite anche le cinque "Scole": quella del Tempio, la Catalana, la Siciliana, la Castigliana e la Nova. Le scole costituivano i principali indirizzi di studi biblici talmudici del pensiero ebraico dell'età di mezzo, rappresentando quindi le diverse origini della comunità ebraica romana.

Ma iniziamo il nostro percorso...

La Sinagoga enne progettata dagli architetti Armanni e Costa all'inizio di questo secolo, dopo la demolizione del Ghetto, e inaugurata nel 1904. La struttura di base è costituita da un nucleo centrale a dado, ravvivato da diverse soluzioni decorative che creano un piacevole gioco di masse. Al livello superiore, tre grandi finestroni, fiancheggiati da colonne orientaleggianti, garantiscono la luminosità interna. La cupola dell'edificio, a padiglione, ne costituisce l'elemento più caratterizzante. La parte interna della cupola è ricoperta da scaglie colorate che vivacizzano la sala della preghiera. Tra gli arredi interni si conservano alcuni elementi decorativi, come i seggi e le edicole, provenienti dalle antiche scole demolite.

Il rito officiato nella Sinagoga maggiore è quello romano. Di sotto, in una seconda Sinagoga si celebra il rito iberico. Questa è costituita da una grande aula rettangolare in cui è contenuta l'arca proveniente dalla Scola Castigliana. All'interno della Sinagoga Š stato allestito un piccolo museo ebraico.

Sulla destra, all'angolo tra il Lungotevere e via del Portico d'Ottavia, si erge la piccola Chiesa di S. Gregorio della Divina Pietà, detta familiarmente S. Gregoretto, che venne affidata da Benedetto XIII alla Congregazione degli Operai della divina Pietà per raccogliere le elemosine da destinare ai nobili decaduti e in stato di miseria, che avrebbero preferito sopportare la fame anziché‚ mendicare per le strade. Ai lati si conservano due curiose buche: su una si legge ancora la scritta: "Elemosina per povere onorate famiglie e vergognose"; la seconda veniva utilizzata invece per l'inserimento dei bigliettini su cui si segnalava il nome delle persone bisognose. La chiesa si trovava proprio di fronte alle porte del Ghetto e qui i poveri ebrei erano costretti ad ascoltare i sermoni che li avrebbero dovuti convertire.

S. Gregoretto, nota anche come S. Gregorio a Ponte Quattro Capi, sorse, secondo la tradizione, sull'abitazione dell'antica famiglia Anicia, ove sarebbe nato S. Gregorio Magno. Riedificata completamente nel 1729 sotto il papato di Benedetto XIII, subì nuovi restauri nel 1858 al tempo di Pio IX.

Presenta in facciata, al di sotto di un dipinto ovale raffigurante una Crocifissione, un'iscrizione bilingue, in latino e in ebraico, su cui è riportato un brano di Isaia (LXV, 2-3): "Io ho teso tutto il giorno la mano ad un popolo incredulo il quale cammina seguendo le sue idee per una via che non Š buona; ad un popolo che continuamente, proprio dinnanzi a me, mi provoca all'ira". L'interno, a navata unica, è quadrangolare ed ospita tre cappelle.

Prendo la strada a destra della sinagoga (con le spalle al Tevere) e raggiungo il Portico d'Ottavia. Venne costruito nel 146 a.C. da Quinto Cecilio Metello il Macedonico per racchiudere i monumentali templi di Giunone Regina e di Giove Statore. All'epoca infatti si chiamava "Portico di Metello": fu Augusto che, con il bottino ricavato dalla guerra dalmatica, ricostruì tutto il complesso tra il 35 e il 23 a.C. e lo dedicò alla sorella Ottavia. In quell'epoca il portico, lungo 119 metri e largo 132, serviva anche da riparo e come zona di passeggio per gli spettatori del vicino Teatro di Marcello. Bisogna immaginarlo come un doppio colonnato coperto da un tetto a due spioventi. Al suo interno si collocavano due biblioteche, una per i libri in greco, l'altra per quelli in latino.

L'edificio, quadrangolare, sorgeva sopra un basso podio, su cui si allineava il colonnato. La parte conservata meglio è il grande propileo che si apriva al centro del lato meridionale e che sporgeva rispetto alla linea del colonnato. Le mura, in mattoni, erano originariamente rivestite di marmo. Le due facciate erano costituite da quattro colonne corinzie, inquadrate tra ante. Sulla sinistra rimangono in piedi due colonne della facciata esterna (quelle di destra sono state sostituite in epoca medievale con un arcone, che consentiva l'accesso alla Chiesa di S. Angelo in Pescheria) e tre di quella interna. Sull'architrave si legge ancora la grande iscrizione, datata al 203 d.C., che fa riferimento a un restauro realizzato da Settimio Severo e dal figlio Caracalla.

Dietro al Portico, si colloca l'antichissima Chiesa di S. Angelo in Pescheria, chiamata così perché nei pressi stava il mercato del pesce. Proprio da questa chiesa, dopo aver ascoltato le trentatre messe rituali in successione partì Cola di Rienzo all'assalto del Campidoglio, il 10 maggio del 1347.

Dedicato inizialmente a S. Paolo, l'edificio sacro, eretto nell'VIII secolo, venne più volte restaurato. In occasione di uno degli ultimi interventi, nel secolo scorso, scomparve quanto restava del campanile romanico del XIII secolo, salvandosi solo la duecentesca campana.

L'accesso alla chiesa, curiosamente asimmetrico, si collocava nel propileo di accesso al Portico di Ottavia, ma scomparve nel 1878 quando, per isolare il monumento archeologico, si asportò la parte superiore pertinente alla chiesa. Osservando il portico con attenzione, si noteranno tracce di stemmi cardinalizi e di affreschi relativi all'antica destinazione.

L'interno della chiesa è a tre navate. Sulla parete d'ingresso si conserva la lapide con l'elenco delle reliquie originariamente ospitate nell'edificio sacro e risalente all'epoca di papa Stefano III nel 755.

Provo a immaginarmi l'ambiente circostante nel XIX secolo: fino al 1877 si annidava nel Portico di Ottavia il principale mercato del pesce della città. Era l'unica zona costantemente illuminata perché‚ il pesce veniva scaricato di notte dal vicino Tevere, alla Renella. All'alba poi si procedeva al cosiddetto "cottìo", ovvero alla definizione del listino della giornata, regolato da numerosi bandi. 

I pescivendoli disponevano quindi la merce su grandi banconi di pietra disposti di fronte alla chiesa e lungo la via della Pescheria. Questi lastroni appartenevano in genere alle famiglie nobili, che li affittavano con notevole lucro.

Murate sul propileo del portico d'Ottavia, si conservano due curiose iscrizioni: La prima ormai quasi illegibile, recita così: "D'ordine dell'Ill.mo e rev. Mons. Gov.re di Roma - si proibisce il poter giuocare a veruna sorte di giuoco anche lecito in questa piazza e sue pertinenze e botteghe - sotto pene di arbitrio", come a dire guai a giocare a carte, a morra o a qualsiasi altro tipo di gioco.

Più curiosa la seconda, in lingua latina che ricorda un privilegio abolito dalla Repubblica Romana nel 1799, secondo il quale si disponeva che competevano ai conservatori la testa e le pinne dei pesci che eccedevano i 113 centimetri.

Proseguendo lungo via del Portico d'Ottavia, raggiungiamo la Casa di Lorenzo Manili, sulla destra. La passione per le antichità era proprio una moda in alcune epoche. Infatti quest'abitazione, con le pareti fitte di frammenti antichi e una curiosa iscrizione latina su due righe che percorre tutta la lunghezza dell'edificio, testimonia la passione del proprietario.

L'iscrizione recita così: "Mentre Roma rinasce all'antico splendore, Lorenzo Manili in segno di amore verso la sua città, costruì questa casa che dal suo nome è detta Manliana, per sé e per i suoi discendenti costruì in proporzione alle sue possibilità nell'anno 2221 dalla fondazione della città, iniziandone la costruzione all'età di cinquanta anni, tre mesi e due giorni; fondò la casa undici giorni prima delle calende d'agosto". Proviamo un po' a sciogliere l'indovinello? Dovrebbe essere il 20 luglio 1467.

Imbocco quindi la stretta via della Reginella e raggiungo piazza Mattei con la splendida Fontana delle Tartarughe.

Furono i conservatori del Comune a volerla nel 1581 per segnare l'arrivo dell'Acqua Vergine nel rione. E fu lo scultore Taddeo Landini che eseguì l'opera su disegni di Giacomo della Porta, realizzando gli splendidi efebi di bronzo che poggiano un piede su un delfino e con un braccio tentano di spingere le tartarughe verso la vasca superiore.

Nel progetto originale al posto di queste simpatiche bestioline ci dovevano essere dei delfini ma, chissà per quale motivo, nel corso di un restauro del 1658, realizzato nientemeno che dal Bernini, vennero aggiunte le tartarughe.

Imbocco quindi via dei Funari fino a Piazza Campitelli e raggiungo il Teatro di Marcello. Augusto lo fece completare nel 12 a.C. e lo dedicò al nipote Marcello, figlio della sorella Ottavia, morto undici anni prima.

Provo ad immaginare l'edificio originario: alto 32 metri, con un diametro di 130, articolato su due piani, poteva contenere 15.000 spettatori. Sembra che fosse lo stesso Cesare ad averne disposto la costruzione per emulare quello del rivale Pompeo.

Tra il 1926 e il 1932, in epoca fascista, per la smania di isolare i monumenti antichi nel tentativo di ridare loro il lustro e la magnificenza perduti, il teatro venne liberato dagli edifici circostanti, sacrificando addirittura la bizzarra piazza Montanara tanto cara ai pittori e agli scrittori della Roma che fu, insieme a una fontana cinquecentesca, trasferita in piazza S. Simeone.

Il monumento era a due ordini di arcate in travertino, quello inferiore in stile dorico, quello superiore in stile ionico, su cui si impostava un attico con paraste corinzie. Di ciascuno dei due ordini si conservano solo sedici arcate delle quarantuno originali. Sulle chiavi dei fornici erano collocate grandi maschere teatrali di marmo, parzialmente recuperate nel corso degli scavi.

La scena, di cui non resta quasi nulla, era fiancheggiata da due aule absidate e preceduta da una grande esedra che ospitava forse due piccoli templi intitolati alla Pietas e a Diana, eretti in sostituzione di due templi più antichi, demoliti in conseguenza della costruzione del teatro.

E quelle alte colonne isolate? Sono quanto resta del Tempio di Apollo Sosiano.

L'edificio doveva il suo nome al console Caio Sosio che lo fece restaurare nel 34 a.C. Il tempio era uno pseudoperiptero in travertino, con otto semicolonne lungo i lati lunghi e sei sul retro. La fronte invece presentava un portico con un prospetto di sei colonne per tre in profondità, tutte in stile corinzio.

Le tre colonne e il frammento di fregio a bucrani e ghirlande di olivo in marmo lunense che si vedono a fianco del teatro di Marcello sono stati rialzati in occasione di un restauro del 1940.

L'interno della cella doveva essere ricco di marmi colorati e di stucchi dorati, ed era inoltre ornato con colonne di marmo africano che sorreggevano una trabeazione con processione trionfale e scene di combattimento che celebravano il trionfo di Sosio. Sul frontone era scolpita in rilievo un'Amazzonomachia al cospetto di Atena, realizzata nel V sec. a.C. ed asportata da un tempio della Magna Grecia per essere inserita in questo edificio di età augustea.

Continuo la mia passeggiata lungo via del Teatro di Marcello, fino alla Chiesa di San Nicola in Carcere, che deve il suo nome al fatto di aver ospitato un carcere pubblico in epoca bizantina. I ruderi che in parte le stanno accanto, in parte sono incorporati nelle sue strutture, sono quel che resta dei tre templi del Foro Olitorio, l'antico mercato delle erbe e dell'olio, che era particolarmente favorito dalla vicinanza con il Tevere che nei pressi doveva avere uno scalo. Purtroppo gli archeologi, nonostante gli sforzi di mente e di cazzuola, ancora non sono riusciti a scoprire con certezza a chi fossero dedicati, sebbene propendano per Giano, Speranza e Giunone Sospita.

La chiesa occupa lo spazio di quello che fu il tempio centrale e parte dei due templi adiacenti.

Le prime notizie di S. Nicola in Carcere risalgono alla fine dell'XI secolo ma la dedica ad un santo greco, S. Nicola di Bari, farebbe pensare ad un'origine più antica.

Papa Pasquale II, elevandola a diaconia cardinalizia, la fece ricostruire e riconsacrare nel 1128. A lui si devono la realizzazione del pavimento in mosaico, degli amboni marmorei, del cero pasquale, della schola canthorum, della sedia episcopale, arredi che in parte vennero portati via dal cardinale Alessandro VI. Una lapide conservata sul lato sinistro della facciata ricorda che la chiesa attuale, realizzata su progetto di Giacomo della Porta, risale al 1599 mentre il suo interno si data al 1128 e la parte superiore al 1865. La torre campanaria conserva ancora le campane fuse nel 1286 per volere della famiglia Savelli.

La facciata della chiesa, ad un solo ordine, con attico, timpano e rosone, è preceduta da una breve scalinata che sormonta una fossa in cui si conservano le fondazioni dei templi romani.

L'interno, a pianta basilicale a tre navate, è ricco di testimonianze antiche, come le colonne e i capitelli di spoglio; si ricordano inoltre un frammento di affresco attribuito ad Antoniazzo da Romano, raffigurante una "Madonna di Guadalupe", portata dal Messico nel Settecento, e la tomba dei Fabi, antica famiglia medievale, proprietaria in origine dei ruderi del Teatro di Marcello.

E che dire degli antichi templi del Foro Olitorio? I tre edifici sono affiancati e separati l'uno dall'altro da una stretta intercapedine. L'esame dei resti visibili all'esterno va assolutamente integrato con l'analisi delle emergenze superstiti all'interno della Chiesa di S. Nicola in Carcere. Gli edifici attuali rifatti agli inizi del I sec. a.C. per far spazio al Teatro di Marcello, dovevano risalire nella loro struttura originaria al III-II secolo a.C.

Il tempio di sinistra, dedicato forse alla Speranza (Spes), il più piccolo dei tre, era di ordine dorico e sorgeva su un alto podio preceduto da una scalinata. Era un periptero esastilo con 11 colonne sui lati.

Il tempio centrale, il più grande della triade, era un esastilo periptero in ordine ionico, con tre file di colonne sul lato anteriore e due su quello posteriore, dedicato probabilmente a Giunone Sospita. Il podio, visibile nei sotterranei della chiesa, era preceduto da una scalinata in travertino, al centro della quale si collocava un altare, ancora conservato davanti alla facciata della chiesa.

Il tempio di destra, di ordine ionico, era un periptero privo di colonnato sul lato posteriore, con due file di sei colonne di peperino in facciata e otto sui lati (alcune di esse sono ancora visibili nella muratura esterna della chiesa). Probabilmente era dedicato a Giano.

Giro intorno alla chiesa, lungo via del Foro Olitorio, in direzione del Tevere. Concludo l'itinerario sul retro del Teatro di Marcello, presso il complesso Orsini Savelli.

L'antica famiglia Savelli, che contò tra le sue fila papi, cardinali, marescialli della Chiesa e principi, ricavò la propria dimora, nel XVI secolo, per opera di Baldassarre Peruzzi, nelle strutture superstiti dell'antico Teatro di Marcello. Dopo la morte dell'ultimo Savelli, nel 1712, il complesso passò di proprietario in proprietario, dagli Sforza-Cesarini alla Congregazione dei Baroni, dagli Orsini ai Caetani di Sermoneta, fino all'attuale proprietà, divisa tra più entità.

Il palazzo, il cui accesso è in via di Monte Savello, attraverso una porta fiancheggiata dagli orsi araldici degli Orsini, è costituito da tre corpi rettangolari disposti attorno a un cortile quadrato, trasformato successivamente in giardino. Vi si accedeva percorrendo tre rampe, oggi ridotte a due, che consentivano di superare il dislivello del terreno accumulatosi sulla cavea del Teatro di Marcello.

Lungo la curva esterna di quest'ultimo si possono ammirare, sopra le arcate, due piani di finestrelle cinquecentesche.

Degni di menzione l'appartamento nobile situato nel corpo centrale: sono presenti infatti una galleria affrescata con paesaggi, di pittore ignoto, e una sala ottagonale decorata con maioliche, ambedue risalenti al Settecento. 

Concludo la mia passeggiata al Rione Sant'Angelo: da qualche parte ho visto lo stemma con l'Arcangelo in campo rosso con spada nuda in una mano e bilancia nell'altra, talvolta accompagnato da un piccolo pesce.

Immagini associate

Casa di Lorenzo Manili
Chiesa di S. Gregorio della Divina PietÃ: buca per le elemosine
Chiesa di S. Gregorio della Divina Pietà
Chiesa di S. Nicola in Carcere
Complesso Orsini Savelli
Complesso Orsini Savelli: orso araldico della famiglia Orsini
Fontana delle tartarughe
Portico d'Ottavia
Resti del Tempio di Apollo Sosiano
Resti del Tempio di Apollo Sosiano
Rione Sant'Angelo, piazza Mattei, particolare della fontana delle Tartarughe
Ruderi di un tempio del Foro Olitorio
Sinagoga
Sinagoga
Teatro Marcello